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Si fa presto a parlare di marketing, ma questo è il motivo per cui la maggior parte delle startup falliscono. Ci sono almeno 3 errori fatali che spesso le startup fanno. Vediamoli!

Tempo di lettura: 5 min

Il Marketing Digitale rappresenta uno dei talloni di Achille di molte startup.

I tecnici spesso non sono così tecnici, e gli strategist non sono così strategist. La facilità di accesso al capitale e la poca esperienza dei founder rappresentano spesso ingredienti letali, se conditi da uno scarso realismo.

Tutti si auto-celebrano come imprenditori e marketers nella Bio di Instagram.

Ma poi, lo sappiamo, fare impresa e vendere un prodotto e servizio è tutta un’altra partita. Riportiamo di seguito i 3 errori più comuni da parte dei professionisti, o wannabe marketers, che navigano nei mari delle startup.

Gestione del Budget Pubblicitario

Le aziende solide e strutturate hanno un budget pubblicitario annuale che subisce fluttuazioni relativamente minime.

Ci sono dei canali pubblicitari privilegiati, delle campagne pregresse come parametri di riferimento e delle strategie di massima ben oliate. Le startup, al contrario, vivono fasi altalenanti passando da fiorenti round di investimenti a temibili periodi di magra.

Nel primo caso prende il sopravvento l’entusiasmo verso la disponibilità di capitale.

Mossi dal romanticismo, più che dalla reale esperienza professionale, i marketers addetti alla gestione del budget pubblicitario si lasciano conquistare dal fascino dei media tradizionali e si lanciano in carambolesche maxi campagne pubblicitarie su carta stampata, radio e televisione.

Campagne che se possono ottenere dei risultati in termini di brand recognition scarseggiano sul fronte della direct response rispetto ai media digitali.

Il piacere di dire ad amici e colleghi che “la startup X è finita in TV” supera di gran lunga la numerica delle conversioni realmente generate. A un certo punto, però, termina il boost temporaneo di visibilità – giusto il tempo di dilapidare 500.000 euro in due settimane di spot televisivi o 30.000 euro in un mese di take radiofonici. E la matematica finisce per non giustificare l’investimento pubblicitario. Per nulla.

Del secondo caso, quella della scarsità di capitale, fanno parte sia le startup che hanno dilapidato gli investimenti pubblicitari in media obsoleti sia quelle che, a monte, hanno deciso in modo irrazionale di allocare un budget inappropriato per la pubblicità a tutto favore, ad esempio, di qualche assunzione di troppo.

Anziché investire 18.000 euro in Facebook ADV e Instagram Stories ADV – giusto per citare due mercati pubblicitari oggi ancora sottocosto – la startup decide di stipendiare figure irrilevanti che, stringendo i denti, potevano essere assunte anni dopo.

La scarsità di capitale si traduce nell’impossibilità di acquisire conversioni e diffondere la notorietà del brand. E se potessimo enunciare una legge universale della pubblicità sarebbe la seguente: puoi avere il prodotto o servizio migliore del mondo, ma se il mercato non ci entra in contatto quel prodotto o servizio non esiste.

Gestione dei ruoli

Sapere chi faccia che cosa è la conditio sine qua non per il sereno svolgimento delle attività di marketing. È fondamentale definire a monte i ruoli per motivi politici e operativi. I primi prevengono sovrapposizioni e mal di pancia, i secondi consentono la velocità di esecuzione.

Il primo elemento da tenere a bada è, spesso, l’ego del CEO.

In quanto imprenditore alle prime armi, la gestione delle proprie emozioni rientra tra le cause scatenanti di conflitti interni all’azienda. Specie per i CEO che presentano un’esperienza accademica di tipo tecnico, abbracciare le logiche basiche del marketing non è assolutamente scontato.

Saper realizzare un prodotto o servizio è una competenza completamente diversa dal saperlo presentare sul mercato.

Eppure i CEO di stampo totalitaristico pretendono di dirottare le strategie di marketing sulla base delle proprie opinioni – più che delle proprie competenze – delegittimando il ruolo di figure verticali come Web Marketing Manager o Digital Strategist assunte, in teoria, proprio per portare sul tavolo proposte e risultati concreti.

Conoscenza del target

Per stare sul mercato un’azienda deve offrire un prodotto o servizio che qualcuno è disposto a comprare. Quel qualcuno si chiama target, e la puntuale conoscenza di questo target rappresenta la stella cometa di ogni startup che vuole attaccare un mercato e conquistare la fiducia di un numero sostenibile di clienti.

La rappresentazione di questo target, tuttavia, appare spesso fumosa e dettata da preconcetti e stereotipi, più che da concreti dati fattuali. La startup vive per mesi, se non per anni, con l’idea che “il target di riferimento abbia un reddito X, presenti interessi Y e svolga la professione Z”.

Poi emerge che nessuna reale ricerca di mercato è stata mai effettuata, e che il profilo del target è un pur frutto dell’immaginazione del CEO o del CMO di turno.

Fallire nell’individuazione del target conduce a catena ad altri errori strategici. Se una startup non sa a chi si sta rivolgendo sbaglia anche i canali pubblicitari su cui investire e il modo in cui comunica online e offline.

Ah, e prima che vi lasciate abbaiare dal trend del momento, chiariamo un punto: inviare una survey tramite Google Form a 100 amici non vale come ricerca di mercato.

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